20 dicembre 2012

Santuari d'infezione: lì dove i farmaci non arrivano


Oggi l’AIDS è una malattia che si riesce a controllare. 
Dall’introduzione della terapia HAART (Highly Active Anti Retroviral Therapy) nel 1996, l’infezione da HIV si è trasformata da malattia acuta rapidamente letale ad infezione potenzialmente cronica. In poco più di dieci anni dall'identificazione della causa dell'AIDS è stata resa disponibile una terapia efficace; questo è il risultato di un ingente sforzo scientifico ed economico da parte della comunità internazionale. È stato un enorme passo avanti, che ha reso l’AIDS una patologia con la quale oggi è possibile convivere. Molti altri passi restano però da compiere, l’eradicazione dell’infezione sembra ancora lontana. I farmaci attualmente disponibili non riescono ad uccidere definitivamente il virus, ma ne riducono la replicazione. Questo avviene per il persistere di una certa replicazione virale, nei cosiddetti "santuari" o "reservoir" durante la fase di soppressione indotta dalla terapia. La sede di tali reservoir è oggetto di studi da anni, si pensa si tratti di stazioni linfonodali o del sistema nervoso centrale, ma la sede cellulare è a tutt’oggi sconosciuta. L’identificazione dei reservoir è di cruciale importanza per capire dove i virus continuano a replicarsi, anche in pazienti sotto terapia antiretrovirale con carica virale prossima allo zero (zero particelle virali nel sangue). Se si riuscirà a fare chiarezza su questo punto della storia naturale dell’infezione da HIV ,sarà possibile pensare terapie farmacologiche volte ad eradicare completamente il virus.
Un recente studio comincia a fornire alcune risposte. I ricercatori del Lusanna University Hospital hanno pubblicato su The Journal of ExperimentalMedicine un lavoro che  individua nelle cellule T follicular helper (Tfh) i possibili reservoirs d’infezione. I linfociti T follicular helper sono linfociti T presenti nei follicoli a cellule B degli organi linfoidi secondari,  quali linfonodi, milza, placche del Peyer ed altri; sono cellule già note tra l’altro per essere implicate nella fisiopatogenesi di alcune malattie autoimmunitarie e nella risposta immune all’infezione da vibio cholera. Secondo lo studio dei ricercatori svizzeri le cellule Tfh sono la popolazione cellulare che maggiormente esprime DNA virale (DNA di HIV entrato nella cellula ospite), capace di sostenere l’infezione in vitro e presente in tutti i pazienti infetti (anche quelli con bassa viremia) in proporzione con il grado di moltiplicazione virale. I ricercatori concludono: these results demonstrate that Tfh cells serve as the major CD4 T cell compartment for HIV infection, replication, and production.
Anche se non definitivi, questi risultati cominciano ad indicare quale popolazione cellulare potrebbe essere sede della replicazione virale anche in fase di soppressione virologica sotto terapia. La portata di tale scoperta, se confermata da ulteriori studi, è grande. Capire cosa succede al virus durante la terapia antiretrovirale è di cruciale importanza per impostare studi farmacologici volti all’eradicazione dell’infezione.

19 dicembre 2012

Prevenzione e cura, due facce della stessa medaglia


La prevenzione per anni è stata la sola arma proposta per fronteggiare l’infezione da HIV nei paesi in via di sviluppo. Il mondo scientifico, quello economico, le agenzie internazionali, hanno creduto che la prevenzione fosse la sola risposta ad un’epidemia che già contava più di venti milioni di infetti. Tale approccio si è rivelato sbagliato, molti hanno cominciato a fare passi indietro, e la terapia antiretrovirale è stata resa disponibile ed accessibile anche nei paesi a risorse limitate. Oggi terapia e prevenzione sono unite in un solo approccio. Test and treat è divenuta una parola d’ordine nei consessi internazionali sull’HIV/AIDS. Curare gli individui sieropositivi abbassa la quantità di virus nel sangue fino a renderlo impossibile da rilevare, la carica virale viene praticamente azzerata. È noto ormai da tempo che il grado di contagiosità di un’infezione è direttamente proporzionale alla carica infettante del microrganismo. Ne risulta che curare l’infezione da HIV – quanto prima possibile – dovrebbe azzerare il tasso di nuovi contagi. Tale ipotesi si è fatta sempre più spazio fino a suscitare l’interesse di diversi studiosi in tutto il mondo ed essere, oggi, dimostrata da diversi studi. L’ultimo di tali studi è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet il primo dicembre scorso. Sono state studiate più di 38.000 coppie sierodiscordanti (uno solo dei partner infetto) in Cina. È stata evidenziata una netta riduzione della contagiosità in relazione alla terapia antiretrovirale, tanto da indurre gli autori a scrivere: The reduction in transmission under real-world conditions in a developing country suggests that such a public health prevention strategy is feasible on a national scale and helps to validate the WHO recommendation in support of the treatments-prevention approach.
Lo studio condotto in Cina fa seguito ad una serie di studi apparsi negli ultimi anni sulla strategia test and treat. Nel 2011, un importante studio veniva pubblicato su the New England Journal of Medicine, condotto in 13 siti di nove paesi, molti dei quali in Africa Subsahariana. Lo studio evidenziava una contagiosità estremamente bassa nei pazienti in trattamento, prossima quasi allo zero. Tali risultati hanno aperto una strada nell’idea che opponeva terapia a prevenzione.
Oggi curare per prevenire sembra quanto mai una strada percorribile, la sola ad unire un doveroso approccio preventivo con la giustizia sociale della cura per i malati.

13 dicembre 2012

A Maputo meeting sulla tubercolosi

La tubercolosi rimane uno dei principali problemi di salute globale. Nel 2011 ci sono stati più di 9 milioni di nuovi casi con 1.4 milioni di morti (990.000 tra la popolazione HIV negativa e 430.000 tra gli HIV positivi). Secondo il rapporto dell’OMS pubblicato a ottobre 2012, il 24% dei casi mondiali di TB risiede in Africa, con il 64% dei casi multi-farmaco resistenti (MDR-TB) e il più alto tasso di mortalità.
Nel 2011, 1.1 milioni (13%) dei 8.7 milioni di persone con TB era HIV positivo e solo il 48% di questi ha iniziato una terapia con antiretrovirali. Il 79% della popolazione con HIV/TB vive nella regione africana ma solo il 69% dei pazienti con TB è stato testato per l’HIV. L’Africa sub-sahariana rimane una delle regioni con il maggior numero di vittime HIV/TB correlate, essendo la TB la principale causa di morte tra i pazienti con HIV/AIDS. Per affrintare tale problema, si sta tenendo in questi giorni a Maputo, Mozambico, un incontro tra rappresentanti del PALOP  (Paises Africanos de Lingua Oficial Portuguesa) e rappresentati dell’OMS per la TB nella regione africana. Il PALOP, nato nel 1992 dall’unione di cinque paesi africani lusofoni, lavora a stretto contatto con  il Portogallo, con l’Unione Europea e con le Nazioni Unite, ricevendo aiuti nel campo della cultura, dell’educazione e dello sviluppo della lingua portoghese.
In questi giorni è la tubercolosi il tema dell’incontro, essendo l’Africa non solo il continente con la più alta mortalità dovuta alla TB ma anche all’HIV e quindi con la più alta mortalità HIV/TB correlata. In particolare in Mozambico la TB è la principale causa di morte.
Da tale meeting emerge che nei paesi dell’Africa sub-sahariana, regimi di trattamento inadeguati, farmaci di scarsa qualità, vendita indiscriminata di farmaci, scarso controllo dell’infezione e debole counselling al paziente per l’adesione al trattamento sono alcune delle cause che hanno portato ad un aumento dei casi di TB. Inoltre gli alti tassi di abbandono ai programmi per la TB contribuiscono alla diffusione della malattia e alla creazione di ceppi resistenti. Secondo Angelica Salomao (rappresentante dell’OMS a tale incontro), i Paesi africani di lingua portoghese dovrebbero investire maggiori risorse umane e finanziarie nella lotta contro la TB. Tale lotta non può non passare attraverso quella contro l’HIV.
Nel 2011, 3,2 milioni di persone arruolate in programmi di cura per l’HIV hanno fatto lo screening per la TB, il 39% in più rispetto al 2010.
L’OMS raccomanda interventi di prevenzione, diagnosi e trattamento della TB in persone HIV positive. Prevenzione con cotrimossazolo e con isoniazide ma soprattutto terapia antiretrovirale a tutti i pazienti HIV positivi. L’ART riduce infatti significativamente il rischio di morbidità e di mortalità dovuto alla TB. Tale terapia è quindi raccomandata per tutti i pazienti con HIV/TB, indipendentemente dal numero di CD4. Aumentare l’accesso alla ART può quindi avere un impatto significativo nel ridurre la mortalità HIV-TB correlata, riducendo nello stesso tempo il rischio di sviluppare TB tra i pazienti HIV positivi.

11 dicembre 2012

Accessibilità delle cure: il caso darunavir


Il nuovo millennio si è aperto con la storica battaglia legale sull'accessibilità alle cure, diritto di proprietà intellettuale contro diritto alle cure. Il 18 aprile 2001 a Pretoria si compiva uno dei passi più importanti nella storia dell'infezione da HIV: il processo per la liberalizzazione della produzione di farmaci antiretrovirali; in quello stesso anno Nelson Mandela diceva: I ask the leaders in the world: 'Is this acceptable?' Is it acceptable that these dying parents have no hope of access to treatment? The simple answer is 'no'. Il processo di Pretoria si è concluso con il ritiro delle case farmaceutiche e la vittoria dell'associazione sudafricana TAC (Treatment Action Campaign) attiva nella lotta all'AIDS. Oggi, come è noto, gran parte dei farmaci antiretrovirali sono disponibili nei paesi a risorse limitate.
Il 6 dicembre scorso, la casa farmaceutica Janssen, del Gruppo Johnson & Johnson, ha annunciato di ritirare i diritti brevettuali sulla molecola darunavir, consentendo la produzione di farmaci generici, a condizione che questi rispettino garanzie di sicurezza e di efficacia, e vengano commercializzati in paesi a risorse limitate.
Le case farmaceutiche, che investono fondi ingenti nella ricerca di nuove molecole, hanno diritto a brevetti ventennali sui farmaci prodotti, diritto che impedisce la produzione di generici e la loro disponibilità nei paesi a risorse limitate. La scelta della Janssen risulta quindi un importante passo avanti per la terapia dell'AIDS in Africa. Il darunavir è un farmaco appartenente alla classe degli inibitori di proteasi,  sempre più diffusi nella cura dell'infezione da HIV. Il darunavir è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) il 23 giugno 2006, è l'ultimo inibitore di proteasi rilasciato in commercio. Con la diffusione di ceppi di HIV farmaco-resistenti anche in Africa Sub-Sahariana, l'aumento dell'offerta terapeutica è di fondamentale importanza, e la scelta della Janssen viene incontro a bisogni sempre più emergenti nella gestione della terapia antiretrovirale nei paesi a risorse limitate. Il darunavir è infatti inserito nelle linee guida dell'OMS della terapia dell'HIV, come farmaco di terza linea per la terapia di infezioni resistenti alle prime due linee di trattamento.
Paul Stoffels, Direttore Scientifico e Presidente Mondiale Attività Farmaceutiche di Johnson & Johnson, si è così espressoriteniamo che una strategia di effettivo accesso alle terapie comprenda la gestione responsabile dei diritti di proprietà intellettuale, senza che questi  debbano costituire una barriera a un’offerta sostenibile dei generici di alta qualità di darunavir nei paesi più poveri del mondo.
Il trattamento dell''infezione da HIV si fa sempre più accessibile, grandi passi avanti sono stati compiuti, ma gli antiretrovirali sono disponibili ancora solo per il 54% dei pazienti nei paesi a risorse limitate (dati UNAIDS). Se il 2001 sembra oggi quanto mai lontano, restano ancora attuali le parole di Nelson Mandela nel 1994, in occasione del suo insediamento come presidente della Repubblica Democratica del Sud Africa: We have, at last, achieved our political emancipation. We pledge ourselves to liberate all our people from the continuing bondage of poverty, deprivation, suffering, gender and other discrimination. [...] The time for the healing of the wounds has come. 

10 dicembre 2012

Obiettivo zero trasmissioni: una missione possibile


Let’s not stop now. Let’s keep focused on the future. And one of those futures that I hope we can be part of achieving is an AIDS-free generation, così si è espressa Hillary Clinton al National Institute of Health lo scorso Novembre.
Nonostante i grandi passi avanti compiuti, ogni anno nel mondo si verificano ancora circa 300.000 nuove infezioni da HIV in bambini. Nel 90% dei casi sono dovute alla trasmissione verticale, cioè il virus viene trasmesso dalla madre sieropositiva durante la gravidanza, il parto o l’allattamento. La trasmissione madre-bambino può essere ridotta a meno del 5% da opportuni programmi di prevenzione. Nonostante gli sforzi per diffondere questi programmi, numerosi fattori concorrono a limitarne l’effetto.
La prevenzione madre-bambino può essere considerata come una cascata di step successivi: test HIV delle donne in gravidanza, valutazione dell’eleggibilità alla terapia, somministrazione di terapia ARV o di profilassi, diagnosi precoce al nuovo nato a 1 mese di vita. A ogni passo, un certo numero di persone viene perso, escono dalla cascata e non beneficiano degli effetti degli interventi. Un recente studio, pubblicato sulla rivista AIDS, ha analizzato quantitativamente questa perdita in diversi paesi dell’africa sub sahariana, effettuando una metanalisi di 44 studi con 75172 partecipanti. Riassumiamo i dati riscontrati: nei setting dove il test HIV viene proposto a tutte le donne, con una strategia opt-out, il 93% delle donne viene testato, mentre in quelli dove le donne devono scegliere attivamente di essere testate (opt-in) la copertura è solo del 57%. In media, il 70% delle donne sieropositive effettua un qualche tipo di profilassi, che in 19 programmi su 77 si riduce alla monodose di nevirapina, intervento ritenuto non ottimale dall’OMS. Solo il 67% delle donne ha accesso alla valutazione dei CD4 e, nel caso la valutazione indichi la necessità del trattamento, solo il 61% delle donne lo effettua. Il 64% dei bambini nati è stato testato a 6 settimane dalla nascita. Questi dati, che indicano come ad ogni tappa successiva un rilevante numero di donne venga perso dal sistema di prevenzione e cura, concordano con l’analisi fatta dal meeting report dell’OMS del 13-15 settembre 2011, che osservava come: “nonostante lo scaling up dei servizi di prevenzione della trasmissione madre-bambino, la copertura di tali servizi nei paesi a basso e medio reddito rimane inaccettabilmente bassa”. Numerosi sono gli ostacoli da superare per garantire a tutte le donne la prevenzione: a cominciare dallo scarso e insufficiente collegamento tra i servizi prenatali e quelli per il trattamento dell’HIV, la non disponibilità dei servizi diagnostici, che spesso sono a pagamento e a prezzi non affrontabili dalla maggioranza della popolazione, i costi del trasporto, i tempi lunghi di attesa nei servizi dovuti al sovraffollamento, il numero elevato di sessioni di counselling richiesto da alcuni servizi prima di poter accedere alle cure, per finire con i problemi legati alla stigmatizzazione e alla difficoltà di comunicare il proprio status al partner. Molti sono dunque i settori identificati per iniziare un percorso di miglioramento, che permetterà di avvicinarsi all’obiettivo di un’AIDS- free generation in tutti i paesi.

4 dicembre 2012

Mozambico: la lunga strada verso la sconfitta della trasmissione madre-bambino dell’HIV

Secondo i dati divulgati dal “Conselho Nacional de Combate à Sida” (CNCS), in Mozambico il 15% delle donne in gravidanza con un’età tra i 15 e i 19 anni vivono con il virus dell’AIDS.
La trasmissione eterosessuale continua ad essere la principale via di contagio con il 90% dei casi tra gli adulti. Più di 1.2 milioni di mozambicani vivono con il virus dell’HIV di cui 270.000 in trattamento antiretrovirale. Quello femminile è il sesso più colpito, con il 13.1% di prevalenza tra le donne, rispetto al 9.2% di prevalenza tra gli uomini. In particolare il virus colpisce donne con un’età compresa tra i 25 e i 29 anni, viventi nelle aree urbane nella regione sud del paese. (dati dell'UNAIDS Country Report 2012) . Secondo il nuovo report UNAIDS, nel 2011 il numero di nuove infezioni si è ridotto del 31% e il 51% delle donne HIV positive ha ricevuto la terapia antiretrovirale durante la gravidanza per ridurre il rischio di trasmissione al feto. Quella della prevenzione materno-infantile del virus continua ad essere un punto focale nella strategia di lotta all’HIV/AIDS del Paese, basata sull’espansione dei servizi di diagnosi e trattamento dell’HIV, sul potenziamento dell’accesso alla cura tramite infrastrutture, farmacie, laboratori, apertura di nuovi centri di salute  e di nuovi siti di distribuzione della ART che consentano a sempre più persone di avere accesso ai servizi. Un ruolo chiave è dato alla prevenzione della trasmissione madre-figlio e alla diagnosi precoce infantile. In questo quadro si inserisce l’accordo siglato il 14 luglio 2011 a Maputo tra il programma DREAM e il Ministero della Salute del Mozambico, per raggiungere l’obiettivo di azzeramento della trasmissione verticale del virus. Non solo tri-terapia a tutte le donne in gravidanza ed espansione del trattamento pediatrico, ma anche il monitoraggio di laboratorio, l’implementazione del supplemento nutrizionale, il sostegno psicosociale attraverso l’assistenza domiciliare, la gestione dei farmaci e la formazione del personale sanitario. DREAM ha dimostrato, in 10 anni di lavoro, di essere a fianco del Mozambico, mantenendo fede ad un impegno preso con il Paese ormai più di 30 anni fa. Lo testimonia il numero di bambini nati sani dal programma di prevenzione verticale. In occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS, infatti il quotidiano di informazione mozambicana, “Noticias”, riporta la notizia di 10.000 bambini sieronegativi di madre HIV + nati dal 2002 nell’ambito del programma DREAM in Mozambico.
DREAM ha da sempre puntato sulla terapia antiretrovirale a tutte le donne in gravidanza, rispondendo non solo alla domanda sul futuro dell’Africa - far nascere generazioni libere dal virus- ma anche alla drammatica domanda sulla vita di tante madri: tri-terapia vuol dire infatti non solo far nascere bambini sani, ma anche salvare la vita di tante donne.


29 novembre 2012

Il Papa: incoraggiare le iniziative per debellare la trasmissione madre-bambino dell’HIV

Nel corso dell’udienza generale di mercoledì 28 novembre, in vista del 1 dicembre, giornata mondiale contro l’AIDS, il Papa ha voluto ricordare i tanti bambini che ancora nascono con il virus.
“In particolare – è stato l'appello di papa Ratzinger –, il mio pensiero va al grande numero di bambini che ogni anno contraggono il virus dalle proprie madri, nonostante vi siano terapie per impedirlo. Incoraggio le numerose iniziative che, nell’ambito della missione ecclesiale, sono promosse per debellare questo flagello".
E’ noto infatti da molti anni che la terapia antiretrovirale somministrata alle madri durante la gravidanza, il parto e l’allattamento, è in grado di ridurre notevolmente, fin quasi ad annullarla, la percentuale di bambini che nascono infetti da madri sieropositive. Nei paesi europei e in nord America i bambini che nascono con l’HIV si contano ormai fortunatamente sulle dita di una mano, mentre sono ancora numerosi nel resto del mondo, soprattutto in Africa. Si calcola infatti che ogni anno nascano più di 300.000 bambini con HIV.

Per questo l’UNAIDS ha lanciato una campagna per l’eliminazione della trasmissione madre bambino entro il 2015, un obiettivo ambizioso ma possibile, a patto che  si continui ad investire per sostenere le fragili strutture sanitarie nei paesi africani e per dare ad ogni donna incinta la possibilità di fare il test per l’HIV e di ricevere la terapia antiretrovirale.
E’ l’obiettivo di una generazione libera dall’AIDS, come ha ricordato Hilllary Clinton alla Conferenza Internazionale sull’AIDS che si è tenuta a Washington dal 22 al 27 luglio 2012. 

La terapia data alle donne per prevenire l’infezione nel bambino ha anche un altro effetto molto importante: quello di proteggere la salute della madre stessa, diminuendone la mortalità.  E’ quanto è emerso anche nell’ VIII Conferenza Internazionale del Programma DREAM, tenutasi a Roma il 22 giugno 2012. L’analisi dei dati derivati dalla lunga esperienza del programma DREAM, che ha finora seguito circa 20.000 gravidanze in donne HIV+ in diversi paesi africani, mostra come la terapia antiretrovirale non solo sia altamente efficace nel prevenire la trasmissione al bambino, con solo il 2% dei bambini che risultano infetti, ma porti anche ad una netta riduzione di quella parte di mortalità materna dovuta all’HIV.
Il problema, come ricorda il Papa, è quindi quello di garantire cure efficaci nel sud del mondo così come già accade nel nord. La terapia esiste, la trasmissione madre bambino si può evitare. Lo hanno dimostrato ormai vari studi scientifici e lo ha divulgato l’OMS fino all’ultimo aggiornamento nell’aprile del 2012: un cocktail di 3 farmaci per impedire al virus di riprodursi. Sono 230.000 i bambini morti nel 2011 nell’Africa sub-Sahariana a causa dell’AIDS. Questa cifra rappresenta il 91% di tutte le morti infantili dovute al virus dell’HIV a livello mondiale.
E’ tempo di agire: la strada c’è, bisogna solo percorrerla.

22 novembre 2012

Il nuovo rapporto UNAIDS, appena presentato a Ginevra, delinea alcuni significativi progressi nella lotta contro l’AIDS negli ultimi anni. Il rapporto mostra una riduzione di più del 50% del tasso di nuove infezioni da HIV in 25 paesi a medio e basso reddito, di cui più della metà in Africa sub-Sahariana, la regione più colpita dall’HIV. Per riportare alcuni numeri, dal 2001 i tassi di nuove infezioni si sono ridotti del 73% in Malawi, 71% in Botswana, 68% in Namibia, 58% in Zambia, 50% in Zimbabwe e 41% in Sudafrica e in Swaziland. In Africa sub-Sahariana si sono inoltre ridotte del 32%, dal 2005 al 2011, le morti per malattie AIDS-correlate ed è aumentato il numero di persone in trattamento antiretrovirale. 

Il maggior successo è stato forse raggiunto tra i bambini: il 50% della riduzione dell’incidenza mondiale dell’infezione da HIV è infatti avvenuto tra i più piccoli, grazie ai programmi di prevenzione verticale madre-figlio. In particolare in 6 Paesi dell’Africa sub-Sahariana – Burundi, Kenya, Namibia, Sudafrica, Togo e Zambia – tale numero è diminuito del 40% tra il 2009 e il 2011.
Continua a leggere la notizia su : dream.santegidio.org

21 novembre 2012

Curare i bambini per il futuro dell'Africa


Entro il 2025 un bambino su tre sarà africano. E’ quanto emerge da una ricerca (Generation 2025 and beyond ) pubblicata ieri dall’UNICEF in occasione della giornata mondiale dell’infanzia. Il 20 Novembre ricorre infatti la giornata in cui si ricorda la proclamazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia e della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, nel 1959 e nel 1989 rispettivamente. Secondo le proiezioni dell’UNICEF, sarà la Nigeria ad avere il maggiore incremento in assoluto della propria popolazione - del 41% tra il 2010 e il 2025- con 31 milioni di bambini in più. Allo stesso tempo, è in Nigeria che si registrerà un decesso su otto nella fascia tra i minori di 18 anni. I numeri pubblicati prefigurano uno scenario preoccupante, poiché saranno le nazioni del Sud del mondo, quelle con le maggiori difficoltà economiche e sociali, a registrare gli incrementi maggiori.
Nonostante il consenso ormai mondiale ad una carta, quella delle Nazioni Unite, che sancisca i diritti fondamentali dei nostri figli, resta ancora da raggiungere nella pratica un diritto fondamentale per ogni bambino, che è il diritto alla cura. 
Secondo il Report pubblicato dall’UNICEF nel 2011 (Global HIV/AIDS response) , in collaborazione con OMS e UNAIDS, alla fine del 2010 erano 3.4 milioni i bambini da 0 a 15 anni con HIV (di cui il 90% in Africa sub-Sahariana). Sono 390.000 le nuove infezioni ogni anno, delle quali 350.000 in Africa (30% in meno rispetto al 2001). Sempre nello stesso anno, si stima che siano morti 250.000 bambini per malattie AIDS-correlate, il 20% in meno rispetto al 2005, ma un numero ancora troppo alto. Delle 250 mila morti, 230 mila sono avvenute in Africa. Anche la lotta globale contro la TB vede nei bambini un aspetto problematico: rimane complicata la diagnosi tra i minori, il trattamento non è adeguato e non raggiunge i bambini con co-infezione HIV/TBC. Secondo un recente studio dei Medici Senza Frontiere, il problema risiede ancora una volta nei test diagnostici. Dai dati raccolti in 18 paesi per un periodo di circa 18 mesi, il 93% dei bambini negativi ai comuni test per TBC sono poi risultati positivi alla malattia. Lo studio è stato presentato alla 43ª Conferenza Mondiale sulle malattie polmonari che si è tenuta a Kuala Lumpur, Malesia, dal 13 al 17 novembre 2012  .
In questi giorni in cui tutto il mondo riflette  sui diritti dell’infanzia, vogliamo riportare dei dati positivi, che sono quelli pubblicati nell’ottobre di quest’anno dal Programma DREAM , programma della Comunità di Sant'Egidio fondata da Andrea Riccardi per la cura dell’AIDS in Africa. Dal suo inizio, nel 2002, sono 195.000 le persone assistite, di cui 33.000 minori di 15 anni. Degli 83.000 pazienti in trattamento con la triterapia antiretrovirale, 9.000 sono bambini; sono 18.500 i bambini nati sani dal programma di prevenzione verticale. 
DREAM garantisce non solo la cura e quindi la sopravvivenza di tanti bambini malati, ma anche la nascita di generazioni libere dal flagello dell’HIV. Il continente africano rinasce a partire dai bambini!

16 novembre 2012

Nati troppo presto: HIV e prematurità

La battaglia contro l’HIV/AIDS è uno degli 8 obiettivi dei Millennium Development Goals 2015. Obiettivo che è opportuno ricordare anche nella giornata internazionale contro la prematurità, il 17 novembre 2012, per la forte correlazione che esiste fra l'HIV e questo fenomeno. Ogni anno, prima della fine della 37ª settimana di gestazione, nascono circa 15 milioni di bambini. Di questi, 1.1 milioni muoiono entro il primo anno di vita, secondo le stime pubblicate dall' OMS (Born too soon: The global action report on preterm birth, 2012).
L’HIV/AIDS, insieme alla malaria e ad altre infezioni materne, rimane una delle cause di nascita pre-termine soprattutto in AfricaCombattere l’AIDS vuol dire quindi ridurre la prematurità e con queste la mortalità neonatale. Quale può essere la strada per giungere presto ad una riduzione di questo fenomeno? Secondo l'OMS la via maestra è la prevenzione ed il trattamento con i farmaci antiretrovirali, prima e durante la gravidanza nelle donne HIV+. Garantire l’assistenza prenatale a tutte le donne in stato di gravidanza, includendo screening, diagnosi e trattamento di infezioni, tra cui infezione da HIV è il modo migliore per ridurre drasticamente la mortalità infantile e la prematurità. Questo è ciò che sta già avvenendo tramite programmi di prevenzione prenatale e cura dell’HIV/AIDS che lavorano in diversi paesi dell’Africa sub-sahariana. I ricercatori del programma  DREAM (Drug Resource Enhacement Against AIDS and Malnutrition), programma avviato nel 2002 dalla Comunità di Sant'Egidio, fondata da Andrea Riccardi per curare l’AIDS in Africa, oggi presente in 10 paesi dell’Africa sub-sahariana, già nel 2009 presentavano i risultati di una ricerca condotta su 3.273 donne HIV+ in gravidanza del Malawi e del Mozambico: l’utilizzo di terapia antiretrovirale è risultato essere fortemente associato alla riduzione della prematurità, indipendentemente dal numero dei CD4. Tali risultati sono stati presentati alla V conferenza internazionale IAS su HIV: patogenesi, trattamento e prevenzione, che si è tenuta a Cape Town, Sudafrica, nel 2009. Secondo uno studio pubblicato dallo stesso gruppo sulla rivista AIDS , la prematurità è risultata del 70% tra le donne non trattate con ART durante la gravidanza, rispetto all’8.5% tra le donne che avevano assunto terapia antiretrovirale per almeno 90 giorni prima del parto. La risposta ancora una volta è quindi quella di fornire il prima possibile l’ART a tutte le donne HIV-positive in gravidanza, raggiungendo anche i paesi a risorse limitate, per ridurre non soltanto la mortalità materna, ma migliorando anche gli outcome,tra i quali la prematurità, che provoca ancora troppe e inaccettabili morti.

9 novembre 2012

La fine dell’epidemia è possibile? La parola al WHO



In vista della giornata mondiale contro l’AIDS 2012, il 1 dicembre, AVERT lancia “Reflections on the Epidemic”, una serie di articoli che portano la firma di grandi autori del mondo della scienza, della cultura, ma non solo, anche di donne e di uomini affetti dall’HIV. Tali autori con le loro esperienze e il loro background, rappresentano diversi paesi del mondo. 
Nell’arco di 10 anni sono aumentate ad 8 milioni le persone che hanno accesso alla terapia, ma sarà possibile raggiungere l’obiettivo del 2015 di 15 milioni di persone in trattamento antiretrovirale? E’ possibile guardare alla fine dell’epidemia? La domanda viene posta dal Direttore del Dipartimento HIV/AIDS dell’WHO, Gottfried Hirnschall. La chiave della risposta risiede proprio nell’ utilizzo della ART in maniera più strategica e più efficace per un maggiore impatto sulle nuove infezioni. Attualmente, in linea con le correnti raccomandazioni dell’OMS che indicano l’inizio della terapia per tutti coloro che hanno CD4 uguali od inferiori a 350 cellule/mm3, si stima che sono circa 15 milioni gli individui ad aver diritto alla terapia. Tuttavia, se prendiamo in considerazione il “trattamento come prevenzione” per le coppie discordanti per HIV, e per le donne in gravidanza, tale numero aumenterebbe a 23 milioni di persone nei paesi a basso e medio reddito. Bisogna tener conto inoltre del fatto che prima o poi tutti gli individui HIV+, 34 milioni di persone, avranno bisogno di terapia antiretrovirale. La strategia è quindi quella di fornire l’ART il prima possibile nel corso dell’infezione aumentando il numero di persone che possano beneficiare di tale trattamento. E’ necessario quindi potenziare l’accesso alla ART. Ciò include una serie di strategie, tra le quali la realizzazione di point-of-care per la diagnostica, riduzione dei costi e integrazione della ART all’interno dei servizi sanitari locali. Questo significa anche garantire la continuità della presa in carico del paziente, dal momento del test in poi, fino al raggiungimento e al mantenimento della soppressione della carica virale. La scoperta di un test positivo necessita infatti di un adeguato legame al trattamento e alla cura , aiutando a sostenere la retention del paziente al programma (collegare con successo il paziente ai servizi, fino a mantenenere in maniera permanente l'aderenza alla ART). E’ quanto lo stesso Hirnschall aveva già affermato nel corso della XIX International AIDS Conference che si è svolta a Washington tra il 22 e il 27 luglio 2012. 

Come colmare il gap tra coloro che iniziano la cura e coloro che si infettano, il cui rapporto ad oggi è di 1 a 2? Garantendo l’accesso alla terapia a quelle popolazioni chiave (partner HIV+ di coppie sierodiscordanti, donne in gravidanza sieropositive, etc...), riducendo così la trasmissione del virus. Test precoci e a tutti, attenzione alla retention e uso strategico dei farmaci antiretrovirali sono quindi gli obiettivi per porre fine all’epidemia. 



Coinfezione Tubercolosi e HIV: una storia a lieto fine?


"We are now at a crossroads between TB elimination within our lifetime, and millions more TB deaths." Così si è espresso il direttore del dipartimento Stop TB del WHO, Dr. Mario Ravaglione.
La tubercolosi rappresenta ancora oggi la prima causa di morte nei pazienti sieropositivi, particolarmente in Africa; i paesi africani ospitano il 79% di tutti i casi di coinfezione HIV-TB al mondo. È quanto riportato dal Global Tubercuolosis Report 2012, pubblicato a fine ottobre dal WHO.
Desmond Tutu, arcivescovo anglicano protagonista della lotta all'Apartheid in Sud Africa, il 7 novembre scriveva preoccupato sul Wall Street Journal: "TB is spreading like wildfire through South Africa's mines and to the world beyond". Una preoccupazione sta crescendo nella comunità scientifica, tra i governi, nella società civile: a 130 anni dall'individuazione della causa della tubercolosi da parte di Robert Koch, il micobatterio continua a uccidere e a diffondersi. Uno dei problemi maggiori continua ad essere la diagnosi della malattia (acuta e latente), in particolare nei contesti sanitari a scarse risorse e nei pazienti sieropositivi. Molti sforzi sono stati fatti in questa direzione, molti strumenti sono ora disponibili, ma la tubercolosi resta ancora spesso non diagnosticata, o diagnosticata in ritardo. L'ultimo progresso rilevante è stato la messa a punto del Gene Xpert, un test di amplificazione genica per l'individuazione del micobatterio nell'espettorato, che comincia a diffondersi in Africa Sub-Sahariana; altri test sono allo studio e sembrano dare risultati promettenti, come la ricerca del lipoarabinomannano (LAM) nelle urine. L'OMS negli ultimi anni ha posto molto l'accento sull'utilizzo di un test clinico di screening basato sulla presenza di quattro sintomi (tosse, febbre, calo ponderale, sudorazione notturna) da somministrare ai pazienti sieropositivi; questo test di screening si è mostrato essere molto valido nell'escludere la tubercolosi, ma relativamente poco efficace nell'effettuare la diagnosi di malattia. Tale approccio clinico è spesso l'unico strumento nelle mani dei clinici operanti in molti contesti dell'Africa Sub-sahariana, eventualmente affiancato dalla microbiologia classica (con tutti i limiti che questa ha, nell'individuazione del micobatterio nei pazienti sieropositivi).
Il risultato di tutto ciò è che ancora oggi circa 8-9 milioni di persone sviluppano ogni anno la tubercolosi, e probabilmente sono numeri che sottostimano l'entità del problema. Di fronte a questo gli strumenti disponibili sembrano essere limitati, tanto da indurre alcuni ad adottare soluzioni tanto innovative quanto stravaganti. Un gruppo di ricercatori ha messo a punto una tecnica per utilizzare le straordinarie capacità olfattive di alcune specie di ratti per l'identificazione dei campioni di espettorato infetti da M. tuberculosis, riducendo i tempi della diagnosi; i topi addestrati riconoscerebbero i campioni infetti semplicemente annusandoli. Una proposta che fa sorridere, ma che rivela un problema ancora preoccupante: la mancanza di metodiche diagnostiche definitive per la tubercolosi.
Quella che è stata definita la malattia infettiva più antica dell'umanità, è ancora una sfida diagnostica per i clinici del XXI sec. Nove milioni di nuovi infetti ogni anno richiedono uno sforzo politico e scientifico in questa direzione. Le parole di Desmond Tutu sulla tubercolosi in Africa australe sono incoraggianti: "We finally have the political will in the region to create an emergency response to arrest its spread. For the health of the region we must seize the opportunity and end this disease."

7 novembre 2012

Mozambico: AIDS e malaria sotto lo stesso riflettore

È noto ormai da tempo che Malaria e HIV sono due delle maggiori piaghe che affliggono l'Africa sub-Sahariana; una ricerca condotta da Hendriksen et al. pubblicata ad ottobre su Clinical Infectious Diseases ne ha messo ulteriormente in risalto alcuni aspetti. Si tratta del primo studio prospettico a riportare le diverse presentazioni cliniche della malaria in relazione alla progressione dell'infezione da HIV. Malnutrizione, acidosi, distress respiratorio, iperazotemia ed infine mortalità si sono mostrati essere strettamente associati alla confezione plasmodio/HIV. Lo studio è stato realizzato in Mozambico, in collaborazione con il ministero della salute mozambicano e l'ospedale di Beira, da cui provenivano i pazienti esaminati. Lo studio pubblicato su Clinical Infectious Diseases riaccende l'interesse sulla coinfezione malaria/HIV, suggerendo un'attenzione maggiore a quei pazienti a maggior rischio.
La provincia di Sofala, di cui Beira è la capitale, è una delle zone più colpite dall'AIDS dell'intero Mozambico, la prevalenza di HIV secondo stime governative supererebbe il 20%. In questa provincia si concentrano molti sforzi per far fronte alla pandemia da HIV, diversi progetti di cooperazione internazionale e di intervento governativo. Il programma DREAM, diffuso su tutto il territorio nazionale mozambicano, ha recentemente aperto un secondo centro di cura dell'AIDS proprio nella città di Beira.
I risultati di tale ricerca vengono diffusi in Mozambico dal quotidiano Notìcias, a pochi giorni dalla riunione congiunta dei ministri della salute e dei ministri responsabili per la lotta all'HIV/AIDS del SADC (Southern African Development Community) che si terrà a Maputo dal 5 al 9 novembre. Al termine dell'incontro si svolgeranno le celebrazioni per la giornata di lotta contro la malaria. Ancora una volta malaria e HIV sotto lo stesso riflettore, nello sforzo di migliorare l'efficienza del servizio sanitario mozambicano.
Il paese, nell'anno in cui ricorda i venti anni di pace, sta affrontando la pandemia da HIV con grandi sforzi; oggi appare ancora più evidente la necessità di un approccio integrale alla salute della popolazione mozambicana colpita dal virus.

6 novembre 2012

L'oro in aiuto dell'Africa per la diagnosi dell'HIV

L’oro arriva in aiuto dell’Africa: è infatti grazie a ioni d’oro dissolti in una soluzione contenente perossido di idrogeno (acqua ossigenata) che si potrà fare diagnosi di HIV. E' quanto emerge da una ricerca pubblicata il 28 ottobre su Nature Nanotechnology.
Il test, valido anche per alcuni tumori, è stato messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Imperial London College: grazie a questo test diagnostico basato su nanoparticelle non saranno più necessarie sofisticate apparecchiature per rilevare la presenza di carica virale nel sangue di individui esposti al virus.
Attualmente la diagnosi si basa su un primo test altamente sensibile che ricerca gli anticorpi anti-HIV nel plasma, a cui fa seguito un secondo test altamente specifico che minimizza i risultati falsi positivi. Tuttavia, il test più attendibile in uso è considerato essere l’HIV DNA test, basato sulla ricerca del DNA dell’HIV nel sangue, tramite tecnica PCR (Polimerase Chain Reaction).
Secondo Molly Stevens e i suoi colleghi, il test diagnostico messo a punto è più sensibile del miglior test attualmente disponibile: gli ioni d’oro a contatto con il perossido di idrogeno formano delle nanoparticelle che assumono forma irregolare o sferica. A contatto con la luce tali particelle potranno poi assumere colore blu (particelle irregolari, presenza di carica virale o di marker tumorale) o colore rosso (particelle sferiche, assenza di carica virale o di tumore), con risultati visibili ad occhio nudo.
Con questo test, utilizzando anticorpi che si legano ad una molecola bersaglio dell’HIV o ad una del cancro prostatico, è possibile individuare miliardesimi di miliardesimi di grammo della proteina presa in esame per millilitro di siero umano, livelli che neanche il gold standard dei test per l’HIV (HIV DNA TEST) è in grado di individuare.

Questo test rappresenta un valido aiuto per i Paesi a risorse limitate. Si immagina infatti il suo utilizzo futuro. A livello pediatrico potrebbe infatti consentire una diagnosi rapida e certa, accorciando i tempi che si hanno tra diagnosi e trattamento, riducendo così la mortalità infantile, ancora troppo alta in Africa sub-sahariana. Il nuovo test potrebbe inoltre essere utile nel supportare le strategie di “test and treat”, annullando il periodo finestra che si ha con i comuni test diagnostici basati su biomarker immunologici.

5 novembre 2012

Pubblicati gli aggiornamenti delle linee guida per il trattamento dell'infezione pediatrica da HIV

Il NIH (National Institutes of Health) ha pubblicato il primo novembre gli aggiornamenti delle linee guida per l'utilizzo degli agenti antiretrovirali nelle infezioni pediatriche da HIV. Il trattamento dei pazienti pediatrici è di fondamentale importanza per garantire la salute dei bambini poiché l'infezione da HIV è caratterizzata da un'alta mortalità in tali pazienti. La pubblicazione di nuove linee guida per l'HIV pediatrico e il relativo aggiornamento, rappresenta un ulteriore passo avanti nell'appropriata gestione dell'infezione nei paesi a risorse limitate; la diffusione del virus nella popolazione infantile è infatti una problematica quasi strettamente africana. Secondo UNAIDS, solo nel 2010, tra le 2,7 milioni di nuove infezioni da HIV, 390.000 erano tra bambini. Dei quasi tre milioni e mezzo di bambini sieropositivi stimati dall'UNICEF nel 2011, tre milioni si trovavano in Africa sub-sahariana.
Tra le molte novità riportate nelle linee guida, l'utilizzo della conta in valore assoluto dei CD4 come criterio per inizare il trattamente accanto alla già usata percentuale di CD4: although CD4 percentage had been preferentially used to monitor immunologic status in children aged <5 years, recent analysises show that CD4 cell counts provide greater prognostic value than CD4 percentage for short-term disease progression in children ages <5 years as well as in older children.
Nuove raccomandazioni sono state inoltre inserite riguardo alla scelta farmacologica da effettuare per l'inizio della terapia antiretrovirale, mentre rimane ancora irrisolta la disputa circa la gestione del fallimento clinico o immunologico al trattamento in assenza di fallimento virologico.