Sono risultati di primaria importanza per lo studio dell’infezione da
HIV quelli pubblicati qualche giorno fa da un gruppo milanese
dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e dall’omonima Università sulla rivista PNAS. Il gruppo ha infatti individuato due nuovi potenziali
bersagli farmacologici nella lotta contro l’HIVall’interno del sistema nervoso
centrale, un modo per riuscire a controllare il meccanismo che governa la
persistenza e propagazione del virus in quel particolare organo e, forse, anche
in altri.
“Il virus dell’HIV oltre
a infettare i linfociti T, uccidendoli, contagia anche i macrofagi,
cellule che hanno lo scopo di fagocitare particelle estranee come appunto virus
o batteri”, spiega Guido Poli, autore senior dello studio. “La differenza
rispetto ai linfociti T è che i macrofagi non vengono eliminati dal virus, ma
semplicemente lo accumulano progressivamente all’interno del loro citoplasma in
vacuoli o macrovescicole. Diventano così essi stessi vere e proprie bombe
virologiche che garantiscono la persistenza del virus in diversi
organi e tessuti, in particolare nel cervello, privo di linfociti, dove può
causare un’encefalite mortale.”
Questi macrofagi “ammalati” rilasciano piccole quantità di particelle virali, ma finora non era noto se esistesse un meccanismo di rilascio controllabile farmacologicamente. La risposta affermativa è arrivata da un attore in parte inaspettato: la molecola ATP (adenosina-trifosfato), nota per essere la principale fonte di energia delle cellule, ma anche un segnale di pericolo quando rilasciata nell’ambiente extracellulare per le sue proprietà infiammatorie. Utilizzando questa molecola i ricercatori hanno dimostrato che, stimolando i macrofagi infettati con ATP, mediante il legame a un suo noto recettore sulla superficie delle cellule, P2X7, questi rilasciavano rapidamente la maggior parte delle particelle virali accumulate.
Il gruppo ha quindi individuato un secondo fattore chiave del meccanismo di rilascio delle particelle virali, ma anche la possibilità di poter bloccare questo meccanismo, non solo con antagonisti di P2X7, ma anche grazie a un farmaco antidepressivo. Si tratta dell’Imipramina, che ha la proprietà di inibire la produzione di microvescicole dalle cellule, una particolare modalità con cui le cellule si liberano del loro contenuto e comunicano con l’ambiente circostante.
Ora si tratterà di
passare dagli studi in vitro a quelli in vivo per verificare se la scoperta abbia effettivamente implicazioni cliniche
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