9 settembre 2014

AIDS in Sud Sudan: l'altro aspetto della crisi umanitaria

Da dicembre 2013 in Sud Sudan le divisioni politiche ed etniche tra le forze rivali fedeli rispettivamente al presidente Salva Kiir e all’ex vicepresidente Riek Machar  hanno dato luogo ad uno spaventoso conflitto. Gli scontri, iniziati nella capitale Juba si sono rapidamente propagati in tutto il Sud Sudan. Le conseguenze sono state e sono tuttora drammatiche: dall’inizio dei combattimenti  migliaia di civili sono stati uccisi, villaggi distrutti e 1.700.000 persone costrette ad abbandonare case e terre per rifugiarsi in luoghi spesso insicuri, tormentati da fame e malattie, tra cui l’AIDS. E’ ciò che sta accadendo alla popolazione di Jonglei che per sfuggire ai combattimenti si sta rifugiando in nuovi insediamenti lontani chilometri dalla città di origine. Tra questi, la città di Nimule, al confine con il nord dell’Uganda, più sicura rispetto al resto del paese ma ad alta prevalenza di HIV (4,4% secondo l'Antenatal Clinics Surveillance Report, dati 2012), sopra la media nazionale del 2,6%.

Diverse organizzazioni hanno deciso di intervenire, cercando di aumentare la conoscenza e quindi la consapevolezza del virus tra le popolazioni di rifugiati, attraverso programmi di educazione sanitaria  con l’ausilio di materiali di informazione, educazione e comunicazione creati dalla South Sudan AIDS Commission (SSAC) e da UNAIDS.
Secondo gli attivisti locali e gli operatori sanitari, migliaia di persone devono ancora essere raggiunte  e le risorse non sono sufficienti. Nimule è una città di confine, con una delle frontiere più attive del paese. Camion carichi di frutta e verdura o di qualsiasi altro genere che possa essere venduto ai mercati di Juba attraversano la città a tutte le ore. Questo movimento comporta un aumento della  prostituzione, causa del 62,5% delle nuove infezioni di HIV tra gli adulti (South Sudan Global AIDS Response Progress Report, dati 2013).
Prima del conflitto l’ospedale di Nimule stava compiendo progressi in materia di AIDS, con l'attivazione di servizi di counselling, di test per l’HIV e con circa 1300 pazienti in terapia antiretrovirale. Con l’arrivo dei profughi sono aumentate le difficoltà. Le nuove popolazioni infatti hanno paura di conoscere il proprio stato, perchè non conoscono il virus e temono la malattia e per la stigmatizzazione che potrebbe derivare da una diagnosi di HIV-positivi. Per questo l’educazione sanitaria è importante, primo passo per portare alla conoscenza del proprio stato sierologico. Dal mese di aprile, alcune organizzazioni, tra cui la CaritasTorit stanno raggiungendo le comunità sfollate più lontane con programmi di educazione sanitaria, visite pediatriche, test per l’HIV e accesso gratuito a farmaci. Nei mesi questo tipo di intervento ha portato un cambiamento nell' atteggiamento delle persone. Il programma è riuscito inoltre ad individuare persone che avevano interrotto il follow up a causa delle continue fughe ed è riuscito a rimetterle in terapia antiretrovirale.
Le sfide da affrontare sono tante, come la carenza di denaro e la conseguente mancanza di mezzi per raggiungere le persone più lontane. Tuttavia il rappresentante della Caritas Torit, Ondiek, fa notare che di certo non mancano le persone che hanno bisogno dei loro servizi e che aspettano di essere raggiunte.

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